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GITHEAD (UK) + SLEEPING STATES (UK)

  • sabato 13 Marzo 2010

Con Landing i Githead giungono alla loro quarta pubblicazione (la terza estesa), un ruolino di marcia impressionante se si pensa che il gruppo è nato appena 5 anni fa. I Githead sono del resto il prodotto di tre autentiche teste pensanti, personaggi che con le rispettive attività soliste - od in gruppo - hanno rivoluzionato le fondamenta della wave inglese, dell´elettronica e del rock che incontra la musica etnica. I Githead sono Colin Newman (Wire), Malka Spigel e Max Franken (Minimal Compact) e Robin Rimbaud (in arte Scanner).
Immagino non serva aggiungere altro sui curriculum dei protagonisti, che con Landing trovano la cosiddetta quadratura del cerchio, con il loro album pi˘ accessibile, tendenzialemnte pop, ma pur sempre interessato a quell´intreccio stilistico tra rock ed elettronica.
Ci sono una serie di distinti elementi in campo: il senso melodico di Newman e Rimbaud - oltre al loro approccio chitarristico di impronta minimale - la sezione ritmica tonante di Spigel e Franken, e quelle preziose tessiture che allargano in maniera organica le maglie dei brani, spesso creando un effetto ipnotico. Sofisticati eppure in grado di liberare un originale furore pop, i Githead sono il prototipo di come il post-punk sia capace di rinnovarsi anche ai giorni nostri. In maniera decisa e definitiva.

Recensione "LANDING"

E’ impossibile accostarsi ai Githead senza tenere in considerazione il curriculum di chi vi suona. Poiché non si tratta di carneadi o esordienti allo sbaraglio, bensì di gente in circolazione da decenni e che in un caso ha pure fatto la Storia, il campo non lo puoi livellare. Uscita numero tre in un lustro, a due anni da un Art Pop che convinse se non esaltò, Landing non teme né pretende confronti; diligente e sereno, si mette in fila a osservare la propria contemporaneità. Mai dubbia e a maggior ragione da che (facciamo un paio di annetti) l’ennesimo revival del Post-Punk è in grave debito d’ossigeno. Verrebbe da obiettare che è facile, se di nome fai Colin Newman, Malka Spigel, Max Franken e Robin Rimbaud/Scanner, uscire con martellamenti secchi tuttavia agili, bassi rotondi e chitarre taglienti, pop e paranoia. La magia sta comunque nella freschezza, in quell’attitudine diventata realtà e nelle visioni plasmate a concretezza.

Qui allora il punto, cui si deve aggiungere l’appartenenza allo ieri che chiamiamo attualità e che frantuma le ossa a ogni sbiadito clone: inquadri subito Lightswimmer e Take Off come figlie spirituali di Chairs Missing (Over The Limit di 154: ma il basso dub, sbiancato e genialmente trattenuto?) finché la voce le consegna ai primi Stereolab e attorno si levano energici aloni shoegaze; lo stesso valga per From My Perspective e Before Tomorrow spostando la lancetta su A Bell Is A Cup. Accelerate la ritmica di Displacement & Time ed ecco Madchester a cavalcioni della jungle, laddove la title track ricopre di zucchero i NEU! e Ride immagina Laurie Anderson in vesti jazz-wave.

Infine, il capolavoro Transmission Tower gestisce otto minuti di (falso) ghiacciaio emotivo con disinvoltura esemplare. Basta e abbonda, giacché Landing non approfitta subdolamente della nostalgia e preferisce indicare una via per riappropriarsi di coraggio e avanguardia nella forma canzone. La testa ronza, e ci sentiamo leggeri come di rado accade.
(SentireAscoltare)

Recensione "ART POP"

Colin Newman ha fatto a suo tempo la storia del post-punk con tre meraviglie di dischi degli Wire, coi quali tuttora persevera in un presente tra i pochi degni di nota tra i (mai così poco, nel caso) reduci di allora. Sarebbe di per sé sufficiente a garantirsi la nostra sempiterna gratitudine, ma poiché Colin è individuo che, oltre alla fede, vuol tenersi degna anche la stima, ecco che nei ritagli di tempo mette su un gruppo a conduzione familiare con la consorte Malka Spiegel (nei Minimal Compact), Max Franken e Robin Rimbaud (ovvero uno Scanner che fa di tutto per nascondersi da se stesso). Questo è il secondo disco della formazione, eloquente e nondimeno depistante nel titolo, giacché i fatti raccontano un ondeggiare verso la costa “artistica” più che quella poppeggiante della mistura (sebbene These Days rimandi all’allure lucente di una Outdoor Miner rappresa e ritmicamente contratta) dentro architetture che spesso interpretano il funk da una prospettiva urbana, algida epperò umanamente pulsante.

Non così devoto ai percorsi Wire come si potrebbe paventare (ma nello scintillante caracollare di Drive By e nel paradosso Blur ante litteram All Set Up, sì), il progetto mostra di possedere, alla luce della contemporaneità, motivazioni salde per la propria esistenza. Nello spazio di un ascolto, infatti, la differenza con le decine di copisti salta all’orecchio, e non potrebbe essere altrimenti.

Chitarre circolari e melodie strisciantemente appiccicose in estatico aprirsi (On Your Own), squadrature che osservano la negritudine dal buco della serratura (Drop, Space Life), nuove acusticherie da camera spoglia (un’immensa Lifeloops) tracciano le coordinate entro cui il quartetto si sposta agile padroneggiando la materia sonora, mescolandola e plasmandola in forme al contempo slanciate e spigolose, in ogni caso ricche di fascino e comunicativa. Nella giostrina stordente di bolle ed elio Jet Ear Game addirittura si ipotizza un proficuo incontro Eno-Laurie Anderson, dove quel passato di canzone sperimentale evocato a nuova vita dal noir pigro che si fa solare in Darkest Star si salda all’oggi. Infine, non manca spazio per una ballad obliqua come Live In Your Head e per la devianza armonica di Rotterdam. Poste in chiusura, suonano entrambe falsamente gentili e giocano con le aspettative dell’ascoltatore come il disco tutto. Guai ad abbassare la guardia e sottovalutarlo, quindi.

Diceva Mingus che, se Charlie Parker fosse un pistolero, in giro ci sarebbero un sacco di scopiazzatori morti stecchiti. A voi l’onore di cambiare i riferimenti storico-stilistici dopo l’ascolto di Art Pop.
Due parole che sono in pochi a maneggiare con sapienza, da sempre.
(SentireAscoltare)

SLEEPING STATES

Markland Starkie, aka Sleeping States, è un catautore folk londinese trasferitosi a Bristol che ha da poco pubblicato ´In The Garden of The North´, a due anni di distanza da ´There the Open Spaces´. Starkie è a poco è approdato su Bella Union, proprietà del suo idolo Simon Raymonde (Cocteau Twins), e dunque i numeri della cabala sono sul piatto. ´In The Garden of the North´, terzo lavoro sotto la sigla Sleeping States, sarà ricordato come il disco con il quale un promettente act dell´underground folk londinese si è misurato con quanto maturato fin´ora uscendone con stile e personalità invidibali. Sleeping States chiude un cerchio iniziato nel 2004 sbocciando da bedroom folkster a crooner crepuscolare perso nel tempo tra qualche landa del Post War Dream e l´immediatezza dei migliori folkster DIY della sua generazione. Se gli inizi erano puramente indie folk le nuove canzoni portano a destinazione le fascinazioni esotiche da teen idol dei primi Sessanta a lungo covate. Parliamo dell’American Graffitti, dell’Elvis cinematografico, delle serenate Doo Wop e di tutto un immaginario esotico che nella corde di Starkie si trasforma in un manifesto di zuccherosa solitudine. In pratica è come se avessimo a che fare con un Patrick Wolf rinunciatario del suo amore per Marc Almond e per i modi dell’Elvis di ´Blue Moon´. E un talento così non poteva rimanere segreto nelle maglie dell´underground a lungo. Amici come Simon Taylor-Davis dei Klaxons e Ed Droste dei Grizzly Bear lo hanno spinto in più di un occasione in questi tre anni, sia attraverso Pitchfork sia con vere e proprie dichiarazioni d’amore.

Recensione ´In The Garden of The North´

A più di due anni di distanza da There the Open Spaces, Markland ha cambiato città. Lasciata Londra per Bristol, s´è accampato presso la batterista Rose Clark (Thanksgiving / Adrian Orange) e ha iniziato a incidere nuove tracce per il primo album veramente visibile della sua carriera.

Da un anno è approdato a casa Bella Union, proprietà di colui che fu nel gruppo che più adora, i Cocteau Twins (lui è naturalmente Simon Raymonde) e dunque i numeri della cabala sono sul piatto. Gardens of the North, terzo lavoro sotto la sigla Sleeping States, sarà ricordato come il lavoro con il quale un promettente act dell´underground (Avant) folk londinese si è misurato con quanto maturato fin´ora uscendone con stile e personalità invidibali.

Sleeping States chiude un cerchio iniziato nel 2004 sbocciando da bedroom folkster a crooner crepuscolare perso nel tempo tra qualche landa del Post War Dream e l´immediatezza dei migliori folkster DIY della sua generazione.

Il lavoro in sottrazione dell´ex pop-noiser Haiko ha dato i suoi frutti: il novello bristoliano pare un Patrick Wolf innamorato della Blue Moon dell´Elvis più cinematografico, un agrodolce Casiotone For The Painfully Alone acustico, lo Jens Lekman più ligio a Tin Pan Alley.

La chiave è comunque il doo wop, mondo Fifties che rivisitato Markland è veicolo di molteplici smalti, assieme di nostalgia, magia e coraggio, anche nel giocare con il cheesy.

Rinunciando a firmare un´altra Rivers (il suo anthem personale) e limando le tentazioni arty (leggi noise, wave) con i quali s´è fatto amici anche importanti, la tracklist brilla per eleganza e limpidezza. Soprattutto è un lavoro essenziale, e perciò consigliabile come tale. (SentireAscoltare)
http://www.myspace.com/githead
http://www.myspace.com/sleepingstates
http://www.myspace.com/wirehq

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