JIDKA, la linea
di Igiaba Scego
intervista tratta da World Music n.87 novembre/dicembre 2007
In una poesia Gloria Anzaldùa, la grande intellettuale chiana, scrisse: “per sopravvivere ai confini/ devi vivere sin fronteras/ essere un crocevia”. Parole del passato di Gloria che si applicano al presente di Saba Anglana. Lei che crocevia lo è da una vita. Padre italiano ex-ufficiale dell’esercito, madre etiope nata e cresciuta in somalia.
Saba è un intreccio vivente di storie, destini, umori che riguardano da vicino la memoria italiana.
“fin da piccola non mi sono preoccupata della mia identità. Ero sempre altro. Per i somali ero etiope, per gli etiopi somala, per gli italiani qualcosa di non chiaro, di non scuro. Ho imparato presto che nessuno ti dà la petente del tuo sé. Che in fondo non serve una patente d’identità”. Saba oggi canta e lo fa in somalo. “Molti mi chiedevano perché non cantavo nella mia lingua natia. Anch’io me lo chiedevo. Però erano anni in cui ero legata musicalmente a un universo in lingua inglese: r&b, Erykah Badu, Sam Cooke. Immaginario black intimamente connesso all’aAfrica, ma non ero totalmente Africa. Poi Fabio Barovero, anima dei Mau Mau e produttore del mio album, mi ha iniziata al mondo della world music. Ho approfondito le mie conoscenze e mi sono resa conto che avevo un bacino da cui attingere e che questo bacino cominciava dalla mia pancia”.
Di pancia infatti parla il brano “Jidka”, che dà il titolo al primo album da solista di Saba pubblicato da World Music Network: “C’è una linea che mi attraversa. In somalo si dice jidka, che significa anche strada. La linea divide e unisce la parte scura e quella chiara. È l’incontro d’amore tra i miei genitori, è la pace”. Pace che nella Somalia di Saba non c’è da 17 anni, la guerra civile ha devastato questo paese che era considerato la gemma profumata del Corno. Pace che però il canto recupera. “Mi sono accorta che quando canto in somalo la mia voce è più libera, non si preoccupa più del significato delle parole, segue il suono, l’emozione. In italiano sono più rigida. Le parole somale ivece mi aiutano a seguire un flusso, molte sono onomatopeiche. Per esempio nel brano “Hanfarkaan” il vento è connesso alla parola. Dici hanfar, vento, elo senti…. un sibilo, soffia nelle orecchie”.
Una lingua di nomadi il somalo, essenziale, che descrive. Saba nel percorso descrive i suoi vari sé: “ è una lingua contaminata la mia. C’è dentro tutto. L’italiano perché la Somalia è stata una ex colonia e il passaggio ha lasciato traccia, ma c’è anche l’inglese, l’arabo e soprattutto c’è l’amarico. Il somalo composito di casa mia quindi. In alcuni brani si spazia nel francese e nel bassà. Le lingue in Jidka non sono barriere tra le persone, non più incomunicabilità ma ponti”.
Le melodie sembrano seguire le parole, suoni che come presenze lisergiche intrecciano pianeti. “Ho scritto prima i testi, poi quasi come un evento psicoacustico sono nate le melodie. Era un po’ come se la parola suggerisse una pista da seguire. Strumento principe del lavoro il djembe, accompagnato da altre piccole percussioni costruite da Nsongan (percussionista camerunese legato ai Mau Mau, nda). Per esempio piccoli tamburi che hanno un’anima di terracotta. La dimensione acustica si è sposata felicemente con l’elettronica, un omaggio alle mie passioni afro-americane. Poi c’è la kora in alcuni brani, non propriamente uno strumento dell’Africa orientale, ma l’obiettivo era creare un suono spregiudicato, mio, nostro. Non la musica delle radici quindi. Radice è un termine che non mi piace poi, crea solitudine, fissità. In Jidka la musica è movimento”.
Anche nei temi dei brani c’è questa spregiudicatezza, unita a una ardente dolcezza. Si parla di passione, solitudine, sorellanza. Le donne sono presenti in ogni lettera quasi. C’è hooyo la mamma, abbayo la sorella, boqorada la regina. “La regina povera, “Boqorada Meskin”, quel brano è dedicato a mia nonna. Lei è la matrice, io vengo da lì. Era una donna semplice, faceva l’ostetrica all’ospedale De Martino a Mogadiscio, ha fatto uscire dalle pance delle donne quasi tutta la città. Era amata. Nella sua semplicità nonna era molto regale. Un po’ io vedo l’Africa in questo modo.
Le donne africane lontane da ogni orpello, anche in condizioni disagevoli, sono sempre molto fiere”. Un po’ come la noire de ….. di Ousmane Sembène, la regina povera di Saba ci insegna il senso segreto della femminilità. Il brano è un rituale. Inizia con quella parola italiana, “fiore”, che ci getta ipnoticamente in uno tsunami di percussioni e voci lontane.
La lontananza, il distacco sono i temi ricorrenti in Jidka. La strada, oltre a passare per le pance, passa anche sotto i piedi dei migranti che macinano chilometri per arrivare nell’Occidnte ricco. Nel brano “Hoio” è molto chiaro: “La canzone parte da una ninna somala che ogni mamma canta al suo bambino. Da questa base ho costruito la storia di una donna che cerca dalla sua assenza di rassicurare il figlio. La genesi è una signora romena che ho conosciuto. Lei qui a crescere i figli della famiglia per cui lavora, i suoi figli invece soli in Romania”. Il suono hoyada watana hab hab sii (tua mamma è qui, abbracciala) è un grido di aiuto, ma anche di speranza.
Circola molto amore in questo lavoro di Saba. Nelle intenzioni, nella sinergia del team, nei testi, nelle persone incontrate nel tragitto e mai perdute. “Io lo sento come un inno al presente Jidka.
Una fotografia emozionale”.
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Saba Anglana: racconto in musica la mia Somalia perduta e ritrovata
* paolo.papi
* Giovedì 27 Settembre 2007
Saba Anglana è una cantante italo-etiope che nasconde la sua età con una battuta e una risata contagiosa: “Sa che cosa le risponderebbe un’africana? Sono una donna senza figli, quindi sono una donna ancora giovane”.
Autrice di un disco dalle sonorità afro-occidentali che è un inno al meticciato musicale (Jidtka, The Line con l’etichetta World Music Network), Saba è cresciuta fino a cinque anni a Mogadiscio in Somalia quando, dopo l’arrivo di Siad Barre (1969), suo padre, un dirigente italiano, e sua madre, una somala di sangue etiope, furono costretti a fare le valigie. Troppo pericoloso rimanere lì per una famiglia di sangue misto malvista dalle autorità somale. Una fuga traumatica che si è trasformata oggi, qualche decennio dopo, in un’occasione di riflessione artistica per questa figlia della diaspora che vive a Roma e che nella sua vita ha fatto anche l’attrice teatrale e televisiva, la doppiatrice, l’autrice. Il suo album, e la sua ricerca, sono soprattutto un tentativo di ritrovare le proprie radici, di parlare attraverso l’arte di un’identità impossibile, plurima e sfaccettata: mezza etiope, mezza somala, mezza italiana, né africana né italiana. Forse solo apolide o come lei dice “straniera in ogni dove”, come tutti i figli della diaspora e dell’immigrazione, costretti a uno sdoppiamento identitario che a volte li rende più forti.
Hai fatto l’attrice teatrale e tv per fiction come La Squadra, la doppiatrice, la cantante. E hai un una madre etiope e un padre italiano che erano visti come nemici dai somali. Sei cresciuta a Roma ma parli il somalo. Saba, ma l’identità nazionale è un’invenzione?
L’identità non è qualcosa di acquisito dalla nascita o di indelebile. È qualcosa che si scopre giorno per giorno attraverso un percorso della memoria. E il mio album, avendo io un’identità ibrida, cerca di di sfidare i cliché di cui siamo vittime, di raccontare come ciascuno di noi è meticcio dalla nascita, né di qui né di là, altrove.
Sei mai stata vittima di discriminazioni?
Discriminazioni non so, ma ancora oggi, per farti un esempio, se vado a fare un provino mi dicono che sono troppo bianca per interpretare la parte della nera e troppo nera per interpretare la parte della bianca (ride, ndr)
Perché siete scappati dalla Somalia?
Il mio Paese si stava imparentando con l’Urss: gli italiani erano etichettati come filoamericani e i somali con sangue etiope come mia madre erano visti con il volto del nemico. Dovevamo scappare.
Che sensazioni hai quando leggi le notizie sulla situazione politica somala?
Ho il sentimento di un mondo perduto: e dire che la Mogadiscio che racconta mia nonna era veramente diversa da quella che raccontano oggi. Dopo la caduta di Siad Barre è cominciata la diatriba tra i clan, la parcellizzazione del potere ridotto a inimicizie tra famiglie. Difficile trovare il bandolo della matassa. Forse impossibile.
C’è chi si augura il ritiro degli etiopi. Tu come la vedi?
Per me è una situazione molto delicata: io sono di sangue mezzo etiope e, benché sappia che gli etiopi sono malvisti, non penso sia la soluzione una loro cacciata. Vedi, per me è difficile trovare la mia terra di appartenenza. Non so se parlare da etiope, da italo-somala, da italo-etiope. Nessun Paese, del resto, mi riconosce una cittadinanza. Ma non me ne lamento, ne ho fatto un punto di forza.
C’è una soluzione a una guerra civile che continua da sedici anni in Somalia?
Ci vuole un intervento diplomatico internazionale, ma la verità è che la pace si fa con i nemici, ovvero con le Corti islamiche che fanno leva sui valori reazionari della religione ma che hanno il popolo dalla loro parte.
Che cos’è questo disco per te?
È il mio primo figlio artistico, la prima volta che mi metto a nudo con la mia storia personale. È un concept album. Il brano che più sento mio è quello che dà il titolo al cd perché rappresenta il messaggio che voglio lanciare: Jidtka è la linea che che separa i diversi, quelli che si uniscono in matrimonio contro tutti, come i miei genitori, che separa la worldmusic acustica dalle sonorità beat ed elettroniche del mio disco, è la linea che divide l’Etiopia dalla Somalia, a causa della quale ci sono ancora oggi problemi di confine. Certo sulla linea nascono le nostre paure ma bisogna avere la forza di attraversarle, queste paure.
Tu ci sei riuscita?
Certo. Bisogna incontrare il proprio presunto nemico e diventare tutti un po’ più meticci. È difficile ma io lo auguro a tutti.
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Dall’articolo di Carola Susani per il quotidiano “La Repubblica” del 26 Settembre 2006
“Quando era piccola, dai due ai cinque anni, Saba abitava con i genitori al capo estremo della Somalia, al confine del Corno d’Africa, a Capo Guardafui. Abitavano in un villino a schiera, di mattoni rossi, con grandi finestre. Davanti c’era il mare, alle spalle una grande roccia a picco. Dietro la roccia, c’era il deserto, terra rossa. Saba ricorda le palme. Con la bassa marea, lei, la madre e la sorella piccolissima, scoprivano i nidi delle murene. La bassa marea svelava i relitti. Bisognava tornare in tempo, prima che la marea si alzasse. La madre pescava, poi al chiaro di luna, raccontava storie, sui relitti e sui ginni, “i diavoli”, mi dice Saba, che si annidano nei relitti. Saba ricorda le gite in barca, pesci, testuggini. Saba è nata a Mogadiscio. Suo padre era italiano. Classe 1916. Era vissuto per vent’anni a Mogadiscio, dove aveva fondato un’agenzia di viaggi, l’Africa Travels. All’agenzia va a lavorare la madre di Saba. Neanche lei è somala, è etiope. Il nonno di Saba era stato deportato in Somalia dagli italiani. Etiopi in Somalia, a Mogadiscio, è una famiglia tollerata, ma nei momenti di crisi subiscono discriminazioni, su di loro si accendono sospetti. A maggior ragione da quando la madre sposa un italiano. Fino al ’75, il padre è direttore della Simmenthal, nella casa dei mattoni rossi e delle murene. E’ un periodo di siccità, è un periodo di tensioni tra l’Etiopia e la Somalia, di trasformazioni politiche interne ai due paesi, di rivolgimento nei rapporti con i reciproci alleati URSS e USA. Il padre e la madre di Saba vengono sospettati di essere spie, lui degli Stati uniti, lei dell’Etiopia. Camionette si fermano davanti alla villetta, portano via il padre di Saba nel cuore della notte, lo restituiscono dopo ore. Saba si ricorda con chiarezza l’angoscia, il pianto. Quarantotto ore di tempo, così gli dicono gli uomini delle camionette, quarantotto ore e lasciare il paese. Si fermano alla casa di Mogadiscio. Prendono quello che riescono e partono per l’Italia.”
L´arrivo in Italia, infatti, determinò per tutta la famiglia una specie di spartiacque tra la vita in Africa e un´esistenza letteralmente da inventare in un nuovo luogo. Una forma sotterranea di nostalgia ha sempre accompagnato gli anni a venire. Come nel segno della mescolanza, Saba ha vissuto sempre ecletticamente.
Dopo la maturità scientifica, si laurea in Lettere Moderne, con indirizzo Storia dell’Arte all’Università di Roma “La Sapienza”. Contemporaneamente studia da mosaicista, interessandosi alle tecniche di restauro e conservazione delle opere d’arte. Lavora poi nella redazione di alcune case editrici tra cui la Manifestolibri, coltivando anche la scrittura come ulteriore medium creativo. Dal 2000 recita in televisione (in un noto telefilm dal titolo “La Squadra”, girato a Napoli, dove si trasferisce per un paio di anni), in teatro (diretta da P. Perelli, A.Pugliese, G. De Feudis) e come doppiatrice (diretta da Lello Arena per il lungometraggio d’animazione “Totò Sapore”).
Ma la musica è l´elemento più forte e ricorrente, che tiene insieme le molte fasi. Dopo aver a lungo cantato in progetti in lingua inglese, è stato l´incontro con la musica africana a ricucire quel filo spezzato con la primissima parte della sua vita. “Jidka” (The line), cantato in lingua somala e condito nel suo spirito moderno di sonorità africane, è il personalissimo ritorno a Mogadiscio, la terra dei suoi natali.
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